Imperia Luz Mezzetti
Durante l’infanzia, per la sopravvivenza psicologica, tendiamo ad essere seduttivi con le figure di riferimento e con il mondo in generale.
Per essere accettati, siamo disposti ad abbandonare parti di noi stessi, a lasciarle nascoste nell’ombra.
A sviluppare un falso sé, adottando l’immagine che gli altri hanno di noi, usando meccanismi di difesa come la negazione e la dissociazione, favorendo un equilibrio che ci permetta di esistere con il minor numero di conflitti consci.
Ad un certo punto della vita però, qualcosa si muove dentro di noi.
Il nostro vero sé è come il canto delle sirene: affascinante, attraente ma pericoloso. Quel richiamo ha qualcosa che ci appartiene per diritto, ma che può farci sprofondare in uno stato di angoscia profonda, per qualcosa che non è più, ed è allo stesso momento, sempre presente, e che preme per uscire.
In terapia confessiamo i segreti più nascosti, ciò che spesso ci vergogniamo di dire pubblicamente. Sappiamo che dall’altra parte c’è il segreto professionale e ci sentiamo protetti.
All’inizio offriamo il nostro materiale di vita vissuta proprio come fosse la peggiore delle nostre spazzature, ma alla fine ci rendiamo conto di quanto preziose fossero invece quelle cose che nascondevamo.

Soltanto all’età di dieci anni, mi sono resa conto che parlavo una lingua pubblica ed una privata. Me ne accorsi quando non sapevo il termine corrispettivo in italiano di recojedor de la basura, un oggetto di uso quotidiano: raccoglitore della spazzatura.
Questo è il motivo per cui ho deciso di fare questo mestiere, la psicologa.
Per essere il raccoglitore di ciò che viene considerato non utile, da negare, da buttare.
Nel mio caso, quella che nell’infanzia era basura, è ora diventato un potente strumento di conoscenza della mia storia passata e osservatorio privilegiato di quella presente.
Esistono numerosissime scuole di psicologia, che si differenziano tra loro per l’approccio all’individuo e al suo disagio. C’è chi si focalizza sulla persona come sistema di relazioni familiari, chi sull’aspetto cognitivo-comportamentale, chi sulla psicoanalisi e l’inconscio ecc..
In base alla mia esperienza personale, credo che ognuno di noi appartenga ad una relazione con se stesso. Ad un personale mondo inconscio, ad un sistema di relazioni, a dei pensieri e comportamenti stabilizzati nel tempo che possono diventare disfunzionali.
Perciò, il mio approccio psicologico all’ascolto tiene conto di tutti questi fattori.
Ritengo che chiunque sieda di fronte a me sia unico e irripetibile; allo stesso modo lo è la sua sofferenza.
La risorsa cui faccio riferimento in terapia è la creatività: quella facoltà di pensare in maniera diversa ai problemi, che permette nuove prospettive e soluzioni, favorendo un nuovo modo di percepirsi.
Recuperando la creatività, siamo in grado di guardare alla difficoltà del presente come a qualcosa che porta significati fino a quel momento celati o lasciati in sospeso.
Trovare un nuovo modo per riproporre il contenuto del disagio ed elaborarlo a livello personale: questo è l’atto creativo, unico ed irripetibile.
In terapia, penso spesso all’artista contemporaneo Andy Warhol, che ci insegna come sia possibile creare opere d’arte anche con materiali umili o di scarto. Ognuno di noi ha il diritto di firmare la propria vita come fosse un’opera d’arte.